Peonie bellissime
dagli angoli bui della tua scatola cranica
Nascono nonostante la tua visione cinica
Di un’intelligenza che pensi non t’appartenga più.
Non cogli la bellezza criptica
Del giardino di petali morbidi
Che ti fa capolino dalle orecchie
E i riccioli cadono leggeri
sui cespugli dei tuoi candidi fiori.
Hanno un profumo così intenso
E la tua pelle ne è intrisa
Permea le stanze che chiami casa
È sempre primavera nella tua scatola chiusa
Ovunque tu metta piede
Non vi è ombra
Né male
La vita ti accompagna e rinasce
Ma il tuo credo cresce e mette radici
Sfiduci le peonie che t’hanno creata
E non t’accorgi più del vento nuovo con cui rinfreschi
La noia loquace di menti assopite.
Le domande – i dubbi – i progetti
Più non ti sazi
Ti chiedi ancora quante verità non conosci
Tutto ciò che fai è temere
l’aridità del tuo giardino
Mentre il sole continua a calare
Su cervelli che non hanno fiori.
Tag: poesia
Mi riempi il cuore di ciliegie
Terra umida e friabile sotto i miei piedi
Camminiamo per il frutteto
Ti ho seguita fino a qui
Il sole è dolce con alberi vestiti di bianco
Quanto te col mio cuore
Ad ogni passo stacchi una ciliegia e ce la metti dentro
Dici che poi maturerà ed avrò anche io il mio posto sicuro
Ci saranno rami folti per farmi ombra quando avrò troppo caldo
Ogni tanto ti nascondi
torni più alta di tre libri
e più grande di cento anime
Le hai sfiorate per la strada
e non ti sei accorta di quanto t’abbiano lasciato
Incurante e sicura
continui a riempire il cesto tra le mie costole con un sorriso acerbo
Tendi la mano così in alto da confonderla col cielo
Mentre racconti la storia infinita della magia che vorresti avere
Inconsapevole che t’appartenga già
Il était une fois Paris
Il était une fois Nous à Paris
ça peut sembler un peu prévu
Les amants et Paris
Mais il pleuvait à verse et nous buvions du vin rouge
De manière que la banalité puisse être un insignifiant détail
il était une fois Paris, qui nous appartenait et nous rejetait
Paris conscient que nous n’étions plus qu’un verre de vin
et quelques jours de pluie.
Il le savait déjà
que nous laverions ses rues et tomberions dans une bouche d’égout
en coulant à pic
Il le savait
que nous étions trop avides pour lui
que nous abîmerios tout
Paris qui nous observait en hochant la tête
et qui nous chuchotait que notre vin était trop doux
qu’il finirait vite.
Paris parent austère
Paris putain tronquée
Paris ville lieu commun
Il voyait déjà une pellicule noire projetée à vide
tandis que nous étions encore en train de prendre des photos du Sacre Coeur.
Eravamo un tempo Noi a Parigi
può sembrare un po’ scontato
Gli innamorati e Parigi
Ma la pioggia cadeva fitta e bevevamo vino rosso
così che la banalità potesse essere un dettaglio trascurabile
Era Parigi, che ci apparteneva e ci respingeva
Parigi consapevole che non eravamo più che un bicchiere di vino
e qualche giorno di pioggia
Lo sapeva già
che avremmo lavato le sue strade e saremmo scivolati in un tombino
colando a picco
lo sapeva
che eravamo troppo ingordi per lei
che avremmo rovinato tutto
Parigi che ci osservava scuotendo la testa
e ci sussurrava che il nostro vino era troppo dolce
e sarebbe finito presto.
Parigi genitore austero
Parigi puttana mozza
Parigi città luogo comune
vedeva già una pellicola nera girare a vuoto
mentre noi ancora scattavamo foto al Sacre Coeur.
La pioggia nel pineto
” ..Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione. “
La pelle è umida.
Sento l’acqua fresca che inzuppa i capelli scuri e gocciola sulle ciglia dei miei occhi dischiusi, scivola sulla bianca, estiva, leggera sottoveste che porto.
Sono sola al centro esatto di una grande pineta, piove forte e il mio respiro prende corpo nell’aria e diventa per un attimo caldo vapore.
La luce è fredda, non ho paura.
Tendo i palmi al cielo come in un Padre Nostro e la pioggia si appropria delle mie mani nude e bianche, ne fa catini precari nei quali si siede per riposarsi un poco.
Lo sa anche lei, che poche gocce più tardi dovrà riprendere il suo viaggio verso un’inesorabile caduta al suolo.
A piedi nudi tocco la terra che è fredda e profuma di vero e d’amore.
Di qualcosa che nasce, d’ambra e d’antico.
La poesia.
Sul filo debole del cigno che balla
Le vedo sulla scena: ecco che entrano! A piccoli passi, su e giù, le mani si muovono dolci nell’aria e aprono loro un varco verso il palcoscenico. Le gambe, quante gambe! Sottili e alte come spighe di grano. Ascoltano la musica quasi avessero anche loro le orecchie per percepire il ritmo sostenuto dell’orchestra. Le punte si alzano vertiginosamente e sembrano spezzarsi, sembrano sempre ad un pelo dalla morte, a tanto così vi dico, pare che stiano per cedere, per cadere in un sonno profondo, quando tutto d’un tratto si risvegliano e continuano a volteggiare.
Ecco che i suoni cambiano, il pianoforte sta guidando padrone la preghiera dei dodici tutù in scena.
Mi tolgo il cappello e chiudo la bocca perché mi accorgo che il mio vicino di posto mi sta guardando. Corrono le dita sui tasti e sulle corde della mia anima, gli occhi hanno vita propria e non smettono d’inseguire quelle figure di zucchero e seta che si muovono perfette e precise, e pulite, sulle assi ruvide del vecchio teatro.
Le piroette, mai viste così tante, mi fanno girare la testa e perdere il senno, la musica aumenta e va più veloce: corri fiorellino, corri!
Non perdete la vostra sottile armonia, leggere goccioline di pioggia, siete sciroppo dolce per la mia tosse! Garza pulita per i miei tagli!
Le scarpette rosa che sfregano sul pavimento stanno cicatrizzando i miei rancori.
L’orchestra cambia ancora e io dico di impazzire.
I tutù ora si stanno muovendo sempre più in fretta, fanno un girotondo e sembra che prendano il volo! Mi tengo stretto alla poltrona e strappo il tessuto rosso per non volare via con loro.
Le luci si abbassano quasi in un inchino e danno il via a così tanti suoni da non riuscire più a distinguerli singolarmente. Ora non riconoscerei nemmeno quello della mia voce.
Ecco che torna il padrone, il cuore pulsante a 88 tasti. Dio quanto ti amo.
Sei tu il mio sole, la mia stella, guidami ancora nel tuo fiume. Guardo oltre la barca e non so dire in cosa io stia navigando. Sento le note che salgono su per la gola ed escono dalle mie labbra, io sono il pianoforte, io sono il teatro, io sono il tutù, io sono una goccia, io sono la polvere bianca sul legno e sotto le scarpe.
Sono l’orchestra e voglio parlare ancora.
Il mondo mi sembra un posto delicatissimo adesso che il cigno bianco al centro delle luci e del mio cuore si muove come se stesse rinascendo dalle ceneri.
Il violino lo annuncia e lo accompagna come al ballo delle debuttanti: nessuno ha mai visto scendere le scale con tanta grazia e accortezza, il cigno ha un vestito di occhi e desideri impossibile da dimenticare.
Ad un tratto vorrei alzarmi e ballare con loro, vorrei piangere, vorrei vivere, ma le lascio fare.
Sono gli ultimi passi e gli ultimi sospiri. Les ballerines si accordano in silenzio su come congedarmi, e prima che io me ne accorga mi lasciano.
Mi rendo conto di essere di nuovo a bocca aperta.
Chiudo gli occhi e mi ritrovo in piedi a battere le mani insieme al teatro intero.
Sto piangendo e non trovo più il cappello.
Per un attimo mi vedo come se fossi al di fuori da me stesso.
Sono fuori e sono dentro, ma in ogni caso non mi riconosco più: non sono io. Quello non è il mio volto, ho i capelli bianchi, sono più goffo e vecchio di quanto credessi.
Poi tutto è dipinto di nero e io sono soffiato via dal sipario che si chiude.
Il sole è sorto. Apro gli occhi. Sono sveglia.
Come tu vuoi
La tramontana screpola le argille,
stringe, assoda le terre di lavoro,
irrita l’acqua nelle conche; lascia
zappe confitte, aratri inerti
nel campo. Se qualcuno esce per legna,
o si sposta a fatica o si sofferma
rattrappito in cappucci e pellegrine,
serra i denti. Che regna nella stanza
è il silenzio del testimone muto
della neve, della pioggia, del fumo,
dell’immobilità del mutamento.Son qui che metto pine
sul fuoco, porgo orecchio
al fremere dei vetri, non ho calma
né ansia. Tu che per lunga promessa
vieni ed occupi il posto
lasciato dalla sofferenza
non disperare o di me o di te,
fruga nelle adiacenze della casa,
cerca i battenti grigi della porta.
A poco a poco la misura è colma,
a poco a poco, a poco a poco, come
tu vuoi, la solitudine trabocca,
vieni ed entra, attingi a mani basse.È un giorno dell’inverno di quest’anno,
un giorno, un giorno della nostra vita.”Come tu vuoi”
Mario Luzi
Una parola è un coltello, una carezza, un fiore, un fuoco, un nettare, una frusta, una chiave, un’anima, un’amica.
Le parole che tu non dici.