Pinoli

Oggi piove, il cielo è grigio e io sono appoggiata all’isola della mia cucina, rivolta verso la dispensa.
Sto lavorando ma ho trovato nel ripiano più alto un sacchetto di plastica, pieno di pinoli avorio puliti e sgusciati.
La ricerca del tempo perduto non ha più la sua forza narrativa mentre mangio il primo pinolo: non è il ricordo a perdersi, né si perde il tempo passato, esso scivola via come l’acqua sotto al ponte Mirabeau di Apollinaire ma, come il poeta, je demeure.
La mia mente subito si ancora al tenerissimo ricordo della ricerca del pinolo perfetto, il gioco che amavo fare con i nonni, nella mia primissima infanzia.
Non è il tempo a perdersi, è la mente a distrarsi dal ricordo.
Ora invece tutto scorre in fila come un vecchio filmino color ocra, con una poetica e artificiale luce ramata, calda, che bagna teneramente un minuscola me e una minuta donna dai capelli neri, entrambe chine sull’asfalto del cortile di casa.
Io mi vedo alta quanto un soldo di cacio, infagottata dentro un cappotto di pelo con solo la testolina e due grasse gambotte che spuntano, fasciate dentro calze bianche.
Vedo mia nonna con il suo solito cappotto beige trapuntato e una sciarpa leggera al collo.
China com’è, la collana d’oro e corallo che ha sempre portato le pende dal collo, ma non le intralcia la ricerca che stiamo portando avanti insieme.
La mia mente di certo dilata le interminabili ore passate a cercare grosse pigne cariche di pinoli, il cui involucro mi premunivo di rompere con cura aiutata da sassi e dalle istruzioni di mia nonna, per arrivare a gustare il prelibato frutto all’interno. Ricordo che il processo iniziava sempre con qualche pinolo spappolato, perché dovevo prenderci la mano, capire come dosare la forza per aprire qualcosa di tanto delicato.
Mia nonna ne apriva per me, ma non li mangiava quasi mai: mi lasciava la gioia atavica della conquista, della caccia al cibo.
Ci vedo sempre molto buffe, con le mani sporche della polvere nera tipica del guscio dei pinoli, e non so perché ma ci vedo sole, avulse dal mondo per la nostra ricerca.
Ricordo solo lei.
Sicuramente anche mio nonno presenziava attento, ma io vedo solo noi due: concentrate, pazienti.
Sento i miei gorgoglii felici di bimba e la sua risata.
Vienne la nuit sonne l’heure
Les jours s’en vont je demeure.

 

Estratti epistolari

La tentazione divora le dita dell’esile scriba, fino ad un attimo prima chino sui suoi lavori, e ora frenetico dopo la scoperta delle lettere!
Come vorrebbe dare risposta a tutte quelle carte mute da decenni, per dire che un finale diverso è possibile, che l’anonimo amante non deve lasciarsi spegnere!
Egli pensa però, subito dopo, che il desiderio di dare risposta a quelle lettere perse è più grande di ciò che in realtà può dirgli.
Lo scrivano non ha nessuna certezza per raccontare quello che non è:
s’immagina l’innamorato dall’altro capo del filo epistolare e
ricorda bene quanto l’infatuazione possa giostrare le marionette del cervello e far vedere maestosi ruggiti in timidi miagolii.
Riflette sulla predisposizione cognitiva dell’amante, che legge tutto con gli occhi di chi cerca parole d’amore nascoste nei titoli di giornale.
Matto di malinconia, se anche le trovasse, non le interpreterebbe nei giusti tempi né con i giusti modi.
Il copista si arrovella sulla possibilità di una storia che non è stata scritta.
Perché arrivare a lasciar mute queste lettere? Come una cornetta alzata che continua a tubare senza fine.
Vorrebbe tamponare la falla di questo tubo d’amore che spreca gli ingiusti sentimenti dell’amata e dell’amante. Purtroppo però guarda le lettere con l’amaro dell’inutilità: sa che non potrebbe dire niente senza essere frainteso.
Così tante parole sarebbero buttate al vento nella volontà di rispondere per dare risposta, di scrivere per scrivere, per sapere che lui è ancora lui e lei ancora lei, che tutto segue il corso naturale del silenzio, del dolore e della vita.
Niente potrebbe dirgli per toglierlo da quello stato di malinconia.
Niente potrebbe, se non aumentarla, così che lo slancio epistolare per la necessità di dare risposta non sarebbe altro che la colata a picco di parole uscite dalla penna secondo una volontà e riflesse sulla carta del destinatario con un altro senso.
Due anime che non usano più lo stesso alfabeto riguardo al preciso argomento.

Il copista ripone le carte in mezzo al manoscritto in cui erano conservate. Inserisce nuovamente il volume nella mensola dedicata dell’immensa libreria.
Spegne le luci dello studiolo e non scrive più nemmeno una sillaba.
Per questo le lettere che ha trovato sono senza risposta: non c’è parola adatta per la penna di chi ha paura di non essere capito.

I piedi della tapparella accanto

Gianna sedeva davanti alla porta finestra del suo piccolo appartamento, tutti i giorni, pranzo e cena.
Lasciava la tapparella alzata così che la luce naturale potesse entrare libera, mentre lei mangiava tranquilla carote crude e limone.
Proprio di fronte alla sua finestra, ce n’era un’altra altrettanto grande, con le tapparelle a metà, come una triste bandiera a mezz’asta.
Dei piccoli fiori lilla crescevano sul davanzale e canne di bambù erano poste come un accenno di barriera verso il mondo esterno. Come a dire: esisto, ma non vi voglio.
Il vetro oltre le tapparelle non era mai chiuso, e ogni tanto si percepivano passi leggeri avanti e indietro per la stanza, a piedi nudi.
All’inizio non ci aveva neanche fatto caso, il suo sguardo passivo era semplicemente costretto in quella direzione. Poi, dopo settimane, aveva imparato a notare come il ritmo e la vita di quei passi cambiassero giorno per giorno.
Il martedì mattina erano nervosi e andavano di fretta, scalpitavano verso la porta con una scarpa si e una no; il giovedì a pranzo erano spesso arrabbiati, ma per cena avevano già levato il broncio. Il venerdì s’innamoravano e il sabato erano quasi impercettibili, assonnati. La domenica uscivano presto su tacchi alti e tornavano solo il lunedì.
Gianna ormai s’era intimamente affezionata.
Dopo qualche tempo, in un qualsiasi giorno di studio della settimana, Gianna si era seduta a tavola con merluzzo e piselli nel piatto, si era versata l’acqua nel bicchiere, e aveva alzato la testa.
La tapparella era completamente sollevata.
Ne era rimasta basita.
Restava seduta, con la forchetta a mezz’aria, guardando finalmente le pareti bianche dell’appartamento di fronte, il piccolo specchio ovale, il tavolo di legno chiaro che sporgeva, e due stendini pieni di biancheria.
Una figura piuttosto robusta stava attraversando la stanza, con i capelli castani legati, una canotta viola e dei pantaloncini di tuta grigi. Scalza.
Eccoli, i piedi della tapparella accanto.
Gianna aveva immaginato la loro proprietaria come una figura più distinta, più piacevole. Ma poco importava, da un momento all’altro ciò che le era sempre stato negato si era palesato davanti alla sua bocca aperta e stupita, senza invito e senza avvertire.
Si sentiva come se le sue abitudini fossero state stravolte, azzerate.
Gianna non era pronta per questo genere di cambiamento.
Aveva mollato la forchetta e si era alzata bruscamente.
La sedia era caduta, offesa come sempre dopo i movimenti maleducati. La mano le tremava ma era riuscita a stringere la maniglia della finestra e a tirarla verso di sé facendo forza sugli infissi molto vecchi. Un clacson l’aveva salutata dalla strada lontana e il sottile vento estivo aveva sparso tutt’intorno i mozziconi del posacenere sul parapetto.
Gianna era rimasta così, appesa alla ringhiera del terrazzino, mentre il merluzzo si freddava e l’inquilina di fronte incurante continuava a passeggiare.
Aveva pensato che la verità non era poi così importante alla fine dei conti.
Certe cose avrebbe preferito non saperle.
La donna aveva quarant’anni almeno e si muoveva goffamente, trascinando un corpo tozzo che andava a sbattere contro i mobili senza attenzione, con aloni di sudore sotto le ascelle e un’aria molto scocciata.
Ci sono speranze e aspirazioni che nutrono i nostri sogni migliori. Così che gli uomini possano crogiolarsi nell’idea di qualcosa di dolce e perfetto che però non possono raggiungere.

Si erano guardate.
La donna aveva grugnito piano e aveva abbassato nuovamente la tapparella, facendola tornare alla sua posizione iniziale.
Gianna aveva rialzato la sedia e si era seduta.
“Meglio così”.

 

Presa

Tanto tempo fa esisteva un’isola felice chiamata Presa.
Le persone a Presa non potevano vivere autonomamente: il loro organismo riusciva a produrre l’energia sufficiente solo per le funzioni pratiche del corpo, come mangiare, lavarsi i denti, soffiarsi il naso. Il problema degli abitanti di Presa consisteva nel pensare: mettere in fila le idee, parlare, sognare, studiare, erano attività con un dispendio energetico troppo alto e purtroppo questa triste situazione costringeva tutti a restare in casa e a limitare le interazioni sociali.
Non esisteva l’amore ma solo l’atto sessuale, l’amicizia si limitava al baratto di cose materiali utili per provvedere ad una vita apatica e pratica come quella di Presa. La politica ovviamente non esisteva e tutto era regolato dalla fame, dal sonno, dai pruriti fisici.
Benché l’immigrazione di individui pensanti fosse quasi nulla, un ricercatore universitario con molte idee e pochi soldi, si interessò al caso di Presa e decise di trasferirsi. Com’era possibile vivere senza pensare?
Rimase anni lontano da casa, e le sue ricerche furono difficili e ostacolate.
Ma finalmente, riuscì a sviluppare una soluzione.
Si avvalse come cavia di un ragazzo giovane nel pieno delle forze, e installò su di lui un piccolo marchingegno elettrico che colmasse le lacune energetiche del suo organismo. Fece due buchi sulla nuca e connesse il suo cervello alla scatolina elettrica fissata alla cintura.
Funzionò.
Le corde vocali del ragazzo vibrarono per la prima volta e la sua voce uscì. Il ricercatore gli insegnò a parlare, a contare e a studiare come si fa con un bambino.
Non ci fu nemmeno bisogno di insegnargli a pensare: quello venne da sé.
Il ricercatore immigrato gli aveva donato gli strumenti necessari per istruire l’intera isola.
Ci vollero una decina di anni prima che tutto il popolo di Presa fosse dotato di processore energetico e potesse usufruire della sua ricchezza tramite quei piccoli fori sulla nuca, quella piccola ‘’presa’’ elettrica che spalancava le porte del mondo intero.
Dopo 50 anni il ricercatore morì, ma la ricchezza che aveva creato restò intatta: ormai Presa era diventata l’eccellenza della civiltà mondiale, centro di cultura, di politica e di sapere.
Era nata una nuova dinastia di individui pensanti e consapevoli, che si mantenne per l’eternità.
Tutti gli abitanti ancora sorridono ripensando a quanto poco sarebbe bastato per creare prima quell’impero. Connettendo, semplicemente, il cervello alla presa.

La ragazza che starnutiva microeconomia

Si chiamava Giorgia e non era molto graziosa.
Aveva folti riccioli castani che si scioglievano dolci lungo tutta la schiena, ma sembrava sempre stropicciata: il suo viso aveva un’armonia spezzata, il naso non combaciava con le labbra e gli occhi erano troppo vicini o troppo distanti, il mento troppo a punta, la fronte troppo alta.
Aveva però uno splendido modo di camminare: sembrava che neanche toccasse terra, si muoveva leggera ed elegante per strada e tra i banchi dell’università, non le era mai capitato di sbattere il mignolino in un qualsiasi spigolo né di finire ingenuamente contro una porta di vetro. Sapeva dove e come muoversi, e questo le conferiva un gran fascino nonostante la sua scarsa bellezza.
Frequentava economia, anche se non le piaceva: la trovava così ostica da chiedersi ripetutamente per quale assurdo motivo avesse scelto un corso di laurea dove nessuno menzionava i grandi autori del ‘900 e i poeti romantici della letteratura francese. Nelle sue lezioni si parlava solo di Elasticità della Domanda o della Marginal rate of Substitution.
In particolare, stava frequentando un corso in inglese di Microeconomia.
Aveva deciso che tanto valeva buttarsi su qualcosa di tosto, già ch’era costretta a parlar di numeri.
La prima lezione fu un disastro.
Riusciva a cogliere l’importanza delle parole che uscivano ubbidienti in fila dalla bocca del professore, ma non il loro ordine. Non il senso.
Quelle dopo non migliorarono: la matematica invadeva prepotente ogni slide powerpoint proiettata sul muro, e i concetti spiegati, benché vagamente interessanti, diventavano ghirigori arabi tra tutti quei numeri.
Accadeva però, che quando il dinamico Professore riusciva a farle capire grafici e derivate parziali, Giorgia prendeva a starnutire.
Uno starnuto se aveva in pugno le linee generali dell’argomento, Due se le erano rimasti solo dubbi superficiali e Tre quando riusciva anche a svolgere bene gli esercizi. Con Tre starnuti e mezzo la classe andava in visibilio e per tutti era una gran festa.
Mancavano tre settimane al primo esame e l’unico desiderio di Giorgia non era un 30 o un 18, ma solo Quattro starnuti, tutti di fila, rumorosi e di buon auspicio.

Latte caldo e gelosia contro il raffreddore

Cammino per la strada e lo stomaco borbotta, un passo dopo l’altro.
Sarà fame? Influenza?
Mi guardo intorno ma le persone mi sfiorano appena con lo sguardo, e procedono sbuffando sulle loro rotaie.
Non si sente il gorgoglio?
Siete sordi?
Continuo a marciare per il centro città con una mano sulla pancia, mentre qualcosa lentamente striscia su dallo stomaco, trachea, esofago, laringe e faringe.
Arriva in gola. È amara.
Con una mano sempre fissa sul ventre e l’altra sulla bocca, ti mando amorevoli accidenti mentre mi racconti di qualcun’altra.
“Maledetto!”
Sempre più l’amaro in bocca
“Scellerato!”
Ormai ha preso tutti i denti e sale alle orecchie.
“Porco!”
Persino gli occhi sono avvelenati.
Le ciglia sono impiastricciate, il naso è ormai irriconoscibile, i capelli sono zuppi.
Poi sempre più su: l’amaro forma una nuvola densa sopra la mia testa
..e in un momento:un tuono.
Serro le labbra, levo le mani, e la nuvola si apre.
Piove gelosia e mi bagna dal capo fino ai piedi, gelosia melensa, compatta, scura, scivolosa.
“Sono Gelosa!”
“..E fradicia!” mi dice un passante che cammina svelto e mi guarda con distratto divertimento.
Sfrego le mani attorno alla pioggia che mi bagna fino a formare una pallina di gelosia appiccicosa, e gliela lancio.
Gli cade il cappello e si sporca il naso.
Raccoglie la Gelosia, prende la mira sbagliata e ricambia il lancio. Colpisce una signora tutta impellicciata.
É guerra.
Tutto il centro cittadino inizia a tirarsi palle di Gelosia, i bambini strillano e zompettano di gioia. Prendono carote e bottoni per fare pupazzi gelati di Gelosia che generosamente produco senza volere.
Ormai tutto è sommerso: nuotiamo in un mare di melassa emotiva, senza lasciarla colare giù per i tombini, senza nemmeno pensare agli accidenti di quei poveri cristi che tra due ore dovranno pulire le poche cose che questa infame gelosia non si sará mangiata.

Lodovico il ladro di caldaie

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Io e Lodovico eravamo seduti all’ombra della caldaia del bagno di casa mia, in pieno centro città. Si stava davvero bene con il culo sul pavimento riscaldato, a guardarsi negli occhi con un vin brûlé molto speziato in mano.
A me il vin brûlé non piace tanto, ma Lodo parlava, parlava e parlava, senza farmelo mai dire. Ad un certo punto ha iniziato a piovere, allora abbiamo tirato le tende della nostra caldaia e ci siamo rintanati dentro, vicino alla fiammella. Era stata un’idea geniale quella di montarle le ruote e trasformarla in una caldaia itinerante.
Lodo non mi parlava mai d’amore, lo imbarazzava, e poi erano i fiori la sua vera passione. Fiori, piante, ortaggi, arbusti e alberi centenari: tutto ciò che poteva coltivare con le sue mani.
Quella sera, al caldo nella caldissima caldaia, Lodo mi disse per la prima volta che mi vedeva come il geranio rosso del suo davanzale. Rosso com’era lui quando me lo confessò. Voleva proteggermi dal gelo dell’inverno così che fiorissi splendidamente appena il caldo fosse tornato.
E forse fu l’amore,
l’emozione,
il vino,
il sudore,
l’imbarazzo,
la fiammella calda della caldissima caldaia,
ma io mi sciolsi come cioccolata in tazza e non mi rimase altro da fare che sgocciolare via dall’intercapedine dello sportellino di metallo.
Lodo per ripicca mi rubò la caldaia e ci costruì una serra.
Ma un po’ ancora mi ama, io lo so:
ci coltiva solo Gerani Rossi.

Per cullare le mie parole

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La fabbrica non è tanto grande: una di quelle industriette di provincia, dove si lavora sodo.
La sala principale è piena di macchinari alti quanto il soffitto, che chiacchierano tra loro con sbuffi di vapore e musica. Non stridono, non urlano, non si lamentano: il ferro che li compone scivola senza inceppi e sembra davvero che cantino mentre lavorano.
Le pareti sono tutte piene di tende leggere, comprate in india qualche anno prima, arancioni, lilla, verdi e azzurre, appese a fili sottili legati alla buona ad appigli che paiono provvisori. Esse filtrano la luce che entra dalle grandi finestre così che camminando per la sala, tutti gli operai rimangano per un attimo estasiati da questo frullatore di luci, colori e musica, muovendosi tra un raggio blu e uno rosso per arrivare alla loro postazione.
Dato che l’altezza degli orpelli di ferro e rotelle copre la maggior parte della visuale, la fabbrica è dotata di un sistema di strade e viuzze che si intersecano tra loro.
Ognuna ha un nome e una caratteristica, sono tutte diverse e tutte riconoscibili: perdersi è impossibile, ma sarebbe piacevole quanto farlo nello zucchero filato.
Il lavoro non pesa e della paga ci si infischia, si riesce a vivere bene e questo è ciò che importa.
Cosa si produce?
Parole.
E a far parole neanche si inquina: la città è costantemente sorvolata da fumi che profumano di vaniglia, muschio bianco, ambra e mirra, in base a quali parole la fabbrica compone.
Ogni giorno si montano frasi su frasi, libri su libri, saggi su saggi, e si spediscono in giro per il mondo, finché qualcuno non si decida a leggerli. Poi si rincomincia.
Ogni tanto, per quanto ben oliata ed efficiente, la fabbrica s’inceppa.
Le parole non s’infilano, non vanno d’accordo, fanno i capricci.
Allora gli operai si inventano storie per farle addormentare, storie di draghi, principesse, cavalieri, operai e fabbriche, per cullarle fino al loro posto.
Quando si svegliano, coccolate come sono, smettono di lamentarsi e tutto riprende il normale corso.
Nel curriculum bastano pazienza e comprensione, ché le parole sono come bambini: bisogna dare loro il tempo di crescere.

Le illusioni di Francesco

Frenci mi chiama vissutella.
Non solo mi atteggio da donna vissuta, ma lo sono proprio “inside”, dice lui.
Non credo che lo intenda come un complimento.
Lui dice che sono una donna vissuta e qui è tre giorni che mi scambiano per una sedicenne.
L’altro ieri un collega di mio padre mi ha chiesto se sono in classe con sua nipote, che frequenta il terzo anno nel mio stesso liceo, e poi oggi: la disfatta totale.
Nel pomeriggio sono andata a recuperare il telefono di mia sorella, ritirato questa mattina dalla professoressa. In segreteria aspettavano qualcuno a cui appiopparlo il prima possibile, genitori o famigliari maggiorenni.
Allora io tutta orgogliosa della mia maggiore età varco la soglia della scuola media e chiedo informazioni a due bidelli.
Mi dicono che la segreteria è al secondo piano e che i telefoni ritirati sono tutti riposti nella cassaforte a combinazione.
Poi alzano la cornetta, bisbigliano qualcosa con un’aria molto ‘top secret’, mi guardano negli occhi e dicono con tono serio:
“Puoi salire”.
Mi sento onorata di un tale privilegio, li ho visti tentennare in preda all’indecisione ma alla fine hanno supposto che potessi essere degna al ritiro del cellulare!
Io, proprio io!!
Salgo le scale con un sentimento di soddisfazione mista a timore e rispetto, e busso alla porta della famigerata segreteria. Mi apre una signora sulla sessantina, con 12cm di tacco e i capelli cotonati.
Mi guarda e mi fa:
” E tu, quanti hanni hai?”
” 18 Signora, ho un documento se vuole.” (con la S maiuscola, sto pur sempre parlando con un’autorità).
Lei tace.
Mi scruta un po’.
Poi riattacca:
” Mi fido, anche se non li dimostri mica. Assomigli a mia figlia che di anni ne ha sedici.”

Il mio orgogliosissimo sorriso si affievolisce.
Prendo il telefono, ringrazio (vecchia strega!), alzo i tacchi ed esco dalla scuola.
Sedici anni.
Ho appena fatto il compito in classe di storia francese, quindi mi sento proprio come Napoleone a Waterloo: sconfitta, abbattuta, incredula, delusa, e con tanto di Samsung con cover in gomma verde a forma di paperotto in mano.
Sedici anni.
Frenci, m’illudi.

Quando tramonta non esisto

Quella sera gli automobilisti erano nervosi.
Lo si notava senza bisogno di clacson e strepitii, giravano semplicemente tutti molto veloci, con la fretta scontrosa di una giornata storta.
Gli incroci erano intasati e stanchi, c’erano sguardi gelidi ad ogni semaforo.
Occhiaie profonde in visi che non vedevano l’ora di tornare a casa, assorti in un mondo di pensieri pesanti: si facevano tic accanto alle faccende sbrigate, in programmi giornalieri scritti a mente in modo indelebile, quasi come un’agenda, e ci si mangiava le unghie per quello che non si aveva avuto il tempo di fare.
“Le giornate dovrebbero essere di 48 ore.”
Me lo diceva sempre.
Ma cosa può succedere, di giovedì, in un tardo pomeriggio sfibrato, nessuno può saperlo.
La strada era sempre quella da 8 anni.
Strette viuzze di campagna, in mezzo a campi che d’estate si riempivano di girasoli.
Avrei potuto scrivere che esplodevano, urlavano di girasoli.
Ballavano, cantavano, vivevano, ridevano, piangevano, di girasoli.
Ma a volte le cose semplici sono le uniche che riescano a fare breccia nei muri di mattoni spessi che proteggono o rinchiudono l’animo umano. Perciò dirò che si riempivano di girasoli. Come per intendere tutto ma trattarlo con lo stesso rispetto di un segreto.
La macchina viaggiava sostenuta, stava imboccando la prima di quelle tante viuzze. Era rimasta per 3 ore parcheggiata vicino alla biblioteca e finalmente stava per riabbracciare casa.
Poi, successe.
Successe tutto in cinque minuti.
Successe che tramontò.
Tramontò e tutti gli automobilisti di quelle strette strade di campagna rallentarono.
Le nuvole facevano da corona ad un sole che illuminava di rosso tutti i campi senza girasoli, che per un attimo smisero di essere tristi.
Non credo ci sia una maniera per descrivere il mondo che si addormenta, se n’è sempre parlato da secoli, e così si continuerà a fare, senza trovare parole che gli rendano giustizia.
Per cui non ne parlerò.
Dirò solo che nei cinque minuti che intercorsero dalle 18.08 alle 18.13 io non c’ero più.
Non c’era più la fretta, le facce stanche, le occhiaie, le cose non fatte, la macchina, i girasoli che in effetti non c’erano veramente, la biblioteca, casa mia.
Non c’era niente.
Solo un eco, e diceva: com’è bello il mondo.
Solo tramonto.