Per cullare le mie parole

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La fabbrica non è tanto grande: una di quelle industriette di provincia, dove si lavora sodo.
La sala principale è piena di macchinari alti quanto il soffitto, che chiacchierano tra loro con sbuffi di vapore e musica. Non stridono, non urlano, non si lamentano: il ferro che li compone scivola senza inceppi e sembra davvero che cantino mentre lavorano.
Le pareti sono tutte piene di tende leggere, comprate in india qualche anno prima, arancioni, lilla, verdi e azzurre, appese a fili sottili legati alla buona ad appigli che paiono provvisori. Esse filtrano la luce che entra dalle grandi finestre così che camminando per la sala, tutti gli operai rimangano per un attimo estasiati da questo frullatore di luci, colori e musica, muovendosi tra un raggio blu e uno rosso per arrivare alla loro postazione.
Dato che l’altezza degli orpelli di ferro e rotelle copre la maggior parte della visuale, la fabbrica è dotata di un sistema di strade e viuzze che si intersecano tra loro.
Ognuna ha un nome e una caratteristica, sono tutte diverse e tutte riconoscibili: perdersi è impossibile, ma sarebbe piacevole quanto farlo nello zucchero filato.
Il lavoro non pesa e della paga ci si infischia, si riesce a vivere bene e questo è ciò che importa.
Cosa si produce?
Parole.
E a far parole neanche si inquina: la città è costantemente sorvolata da fumi che profumano di vaniglia, muschio bianco, ambra e mirra, in base a quali parole la fabbrica compone.
Ogni giorno si montano frasi su frasi, libri su libri, saggi su saggi, e si spediscono in giro per il mondo, finché qualcuno non si decida a leggerli. Poi si rincomincia.
Ogni tanto, per quanto ben oliata ed efficiente, la fabbrica s’inceppa.
Le parole non s’infilano, non vanno d’accordo, fanno i capricci.
Allora gli operai si inventano storie per farle addormentare, storie di draghi, principesse, cavalieri, operai e fabbriche, per cullarle fino al loro posto.
Quando si svegliano, coccolate come sono, smettono di lamentarsi e tutto riprende il normale corso.
Nel curriculum bastano pazienza e comprensione, ché le parole sono come bambini: bisogna dare loro il tempo di crescere.