Come quando si esce da casa della nonna e piove solo durante il tragitto fino alla macchina.
Appena si chiude lo sportello il timidone giallo si risfila le nuvole quasi fossero maglioni e torna a fare lo splendido. Ma dico, almeno chiedere scusa.
Come quando si è a scuola e Quello di storia tenta di parlare francese, ripetutamente, e sono le 13 meno 10 e uno vorrebbe solo coprirsi le orecchie e uscire di corsa.
“Cet la vies”
Sì, c’est la vie de merde.
Perchè sono seduta in un posto pieno di polvere e io con la polvere starnutisco a ripetizione e ho anche finito i fazzoletti, che se uso le salviette del bagno 100% carta vetrata dopo due starnuti sembro Rudolph the red-nosed reindeer.
Ahhh, la vie de merde.
Che Levante canta “che vita di merda” ma non suona uguale. E poi lo canta così bene che mi rimane in testa e prendo a canticchiarlo anch’io, e va a finire che ci credo davvero.
È una vie de merde anche quando vado a zumba alle 8 e faccio aperitivo mezzora prima così c’arrivo piena e anche un po’ brilla, e la russa tutta pepe che mi fa lezione se ne accorge e mi fa lavorare il doppio.
Forse allora il problema non è la vita ma l’apéritif. L’Aperol come causa di ogni male.
Però ‘vie’ è più facile da dire, persino per Quello di storia.
E c’est le spritz de merde suona proprio come una bestemmia.
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Sul filo debole del cigno che balla
Le vedo sulla scena: ecco che entrano! A piccoli passi, su e giù, le mani si muovono dolci nell’aria e aprono loro un varco verso il palcoscenico. Le gambe, quante gambe! Sottili e alte come spighe di grano. Ascoltano la musica quasi avessero anche loro le orecchie per percepire il ritmo sostenuto dell’orchestra. Le punte si alzano vertiginosamente e sembrano spezzarsi, sembrano sempre ad un pelo dalla morte, a tanto così vi dico, pare che stiano per cedere, per cadere in un sonno profondo, quando tutto d’un tratto si risvegliano e continuano a volteggiare.
Ecco che i suoni cambiano, il pianoforte sta guidando padrone la preghiera dei dodici tutù in scena.
Mi tolgo il cappello e chiudo la bocca perché mi accorgo che il mio vicino di posto mi sta guardando. Corrono le dita sui tasti e sulle corde della mia anima, gli occhi hanno vita propria e non smettono d’inseguire quelle figure di zucchero e seta che si muovono perfette e precise, e pulite, sulle assi ruvide del vecchio teatro.
Le piroette, mai viste così tante, mi fanno girare la testa e perdere il senno, la musica aumenta e va più veloce: corri fiorellino, corri!
Non perdete la vostra sottile armonia, leggere goccioline di pioggia, siete sciroppo dolce per la mia tosse! Garza pulita per i miei tagli!
Le scarpette rosa che sfregano sul pavimento stanno cicatrizzando i miei rancori.
L’orchestra cambia ancora e io dico di impazzire.
I tutù ora si stanno muovendo sempre più in fretta, fanno un girotondo e sembra che prendano il volo! Mi tengo stretto alla poltrona e strappo il tessuto rosso per non volare via con loro.
Le luci si abbassano quasi in un inchino e danno il via a così tanti suoni da non riuscire più a distinguerli singolarmente. Ora non riconoscerei nemmeno quello della mia voce.
Ecco che torna il padrone, il cuore pulsante a 88 tasti. Dio quanto ti amo.
Sei tu il mio sole, la mia stella, guidami ancora nel tuo fiume. Guardo oltre la barca e non so dire in cosa io stia navigando. Sento le note che salgono su per la gola ed escono dalle mie labbra, io sono il pianoforte, io sono il teatro, io sono il tutù, io sono una goccia, io sono la polvere bianca sul legno e sotto le scarpe.
Sono l’orchestra e voglio parlare ancora.
Il mondo mi sembra un posto delicatissimo adesso che il cigno bianco al centro delle luci e del mio cuore si muove come se stesse rinascendo dalle ceneri.
Il violino lo annuncia e lo accompagna come al ballo delle debuttanti: nessuno ha mai visto scendere le scale con tanta grazia e accortezza, il cigno ha un vestito di occhi e desideri impossibile da dimenticare.
Ad un tratto vorrei alzarmi e ballare con loro, vorrei piangere, vorrei vivere, ma le lascio fare.
Sono gli ultimi passi e gli ultimi sospiri. Les ballerines si accordano in silenzio su come congedarmi, e prima che io me ne accorga mi lasciano.
Mi rendo conto di essere di nuovo a bocca aperta.
Chiudo gli occhi e mi ritrovo in piedi a battere le mani insieme al teatro intero.
Sto piangendo e non trovo più il cappello.
Per un attimo mi vedo come se fossi al di fuori da me stesso.
Sono fuori e sono dentro, ma in ogni caso non mi riconosco più: non sono io. Quello non è il mio volto, ho i capelli bianchi, sono più goffo e vecchio di quanto credessi.
Poi tutto è dipinto di nero e io sono soffiato via dal sipario che si chiude.
Il sole è sorto. Apro gli occhi. Sono sveglia.
La metà delle parole che non ti scriverò
Troverò un posto dove scrivere tutte le parole che non riesco a dire e spero che alla fine riescano a trovarti. Che riescano a trovarvi tutti.
Come tu vuoi
La tramontana screpola le argille,
stringe, assoda le terre di lavoro,
irrita l’acqua nelle conche; lascia
zappe confitte, aratri inerti
nel campo. Se qualcuno esce per legna,
o si sposta a fatica o si sofferma
rattrappito in cappucci e pellegrine,
serra i denti. Che regna nella stanza
è il silenzio del testimone muto
della neve, della pioggia, del fumo,
dell’immobilità del mutamento.Son qui che metto pine
sul fuoco, porgo orecchio
al fremere dei vetri, non ho calma
né ansia. Tu che per lunga promessa
vieni ed occupi il posto
lasciato dalla sofferenza
non disperare o di me o di te,
fruga nelle adiacenze della casa,
cerca i battenti grigi della porta.
A poco a poco la misura è colma,
a poco a poco, a poco a poco, come
tu vuoi, la solitudine trabocca,
vieni ed entra, attingi a mani basse.È un giorno dell’inverno di quest’anno,
un giorno, un giorno della nostra vita.”Come tu vuoi”
Mario Luzi
Una parola è un coltello, una carezza, un fiore, un fuoco, un nettare, una frusta, una chiave, un’anima, un’amica.
Le parole che tu non dici.