Mentre cucino zucchine
il coltello si muove sulla carne verde
fa un rumore sordo – le sveglia, si rialza e torna ad abbracciarle ogni volta che sbatte contro la plastica dura del tagliere
mi piace cucinare le zucchine perché parlano
Nuotano nel mare della padella, e si divertono a fare le bolle
come i bambini
Adoro cuocere le zucchine perché profumano sempre di casa
Si staccano i semini bianchi appesi al petto e me li regalano come pegno d’amore
facendoli galleggiare sull’acqua
Quando cucino zucchine mi scappano le idee
sono troppo concentrata a mescolarle e mi distraggo
lascio la finestra aperta così almeno possono andare lontano
magari trovano il posto giusto e si mettono a fare carriera
diventano idee di successo
Chissà
Delicate
83 giorni a Buenos Aires, 2 giorni di diluvio, 2 giorni ad un esame inutile, 20 panni stesi per casa.
Basta poco per definire la vita di una persona.
Quante volte fa la spesa, quanti libri compra e poi non legge, quanti secondi pensa prima di parlare. Tutti i No e quanti Sì.
Poche informazioni e le linee generali iniziano a comparire, si intersecano e rimangono sottili. Formano un disegno decifrabile con poca luce.
L’attitudine, la percezione, i sogni. -il vocabolario. La musica.
Come passa il sabato mattina, quanto ama la luce naturale delle giornate uggiose.
In che modo dosa malinconia ed entusiasmo.
Mentre disegno la mia vita sono fiera di ciò che vedo.
Questa è una piccola postilla nella bacheca della mia mente per rendermi chiaro cosa sto costruendo. Sempre con delicatezza.
Presa
Tanto tempo fa esisteva un’isola felice chiamata Presa.
Le persone a Presa non potevano vivere autonomamente: il loro organismo riusciva a produrre l’energia sufficiente solo per le funzioni pratiche del corpo, come mangiare, lavarsi i denti, soffiarsi il naso. Il problema degli abitanti di Presa consisteva nel pensare: mettere in fila le idee, parlare, sognare, studiare, erano attività con un dispendio energetico troppo alto e purtroppo questa triste situazione costringeva tutti a restare in casa e a limitare le interazioni sociali.
Non esisteva l’amore ma solo l’atto sessuale, l’amicizia si limitava al baratto di cose materiali utili per provvedere ad una vita apatica e pratica come quella di Presa. La politica ovviamente non esisteva e tutto era regolato dalla fame, dal sonno, dai pruriti fisici.
Benché l’immigrazione di individui pensanti fosse quasi nulla, un ricercatore universitario con molte idee e pochi soldi, si interessò al caso di Presa e decise di trasferirsi. Com’era possibile vivere senza pensare?
Rimase anni lontano da casa, e le sue ricerche furono difficili e ostacolate.
Ma finalmente, riuscì a sviluppare una soluzione.
Si avvalse come cavia di un ragazzo giovane nel pieno delle forze, e installò su di lui un piccolo marchingegno elettrico che colmasse le lacune energetiche del suo organismo. Fece due buchi sulla nuca e connesse il suo cervello alla scatolina elettrica fissata alla cintura.
Funzionò.
Le corde vocali del ragazzo vibrarono per la prima volta e la sua voce uscì. Il ricercatore gli insegnò a parlare, a contare e a studiare come si fa con un bambino.
Non ci fu nemmeno bisogno di insegnargli a pensare: quello venne da sé.
Il ricercatore immigrato gli aveva donato gli strumenti necessari per istruire l’intera isola.
Ci vollero una decina di anni prima che tutto il popolo di Presa fosse dotato di processore energetico e potesse usufruire della sua ricchezza tramite quei piccoli fori sulla nuca, quella piccola ‘’presa’’ elettrica che spalancava le porte del mondo intero.
Dopo 50 anni il ricercatore morì, ma la ricchezza che aveva creato restò intatta: ormai Presa era diventata l’eccellenza della civiltà mondiale, centro di cultura, di politica e di sapere.
Era nata una nuova dinastia di individui pensanti e consapevoli, che si mantenne per l’eternità.
Tutti gli abitanti ancora sorridono ripensando a quanto poco sarebbe bastato per creare prima quell’impero. Connettendo, semplicemente, il cervello alla presa.
La ragazza che starnutiva microeconomia
Si chiamava Giorgia e non era molto graziosa.
Aveva folti riccioli castani che si scioglievano dolci lungo tutta la schiena, ma sembrava sempre stropicciata: il suo viso aveva un’armonia spezzata, il naso non combaciava con le labbra e gli occhi erano troppo vicini o troppo distanti, il mento troppo a punta, la fronte troppo alta.
Aveva però uno splendido modo di camminare: sembrava che neanche toccasse terra, si muoveva leggera ed elegante per strada e tra i banchi dell’università, non le era mai capitato di sbattere il mignolino in un qualsiasi spigolo né di finire ingenuamente contro una porta di vetro. Sapeva dove e come muoversi, e questo le conferiva un gran fascino nonostante la sua scarsa bellezza.
Frequentava economia, anche se non le piaceva: la trovava così ostica da chiedersi ripetutamente per quale assurdo motivo avesse scelto un corso di laurea dove nessuno menzionava i grandi autori del ‘900 e i poeti romantici della letteratura francese. Nelle sue lezioni si parlava solo di Elasticità della Domanda o della Marginal rate of Substitution.
In particolare, stava frequentando un corso in inglese di Microeconomia.
Aveva deciso che tanto valeva buttarsi su qualcosa di tosto, già ch’era costretta a parlar di numeri.
La prima lezione fu un disastro.
Riusciva a cogliere l’importanza delle parole che uscivano ubbidienti in fila dalla bocca del professore, ma non il loro ordine. Non il senso.
Quelle dopo non migliorarono: la matematica invadeva prepotente ogni slide powerpoint proiettata sul muro, e i concetti spiegati, benché vagamente interessanti, diventavano ghirigori arabi tra tutti quei numeri.
Accadeva però, che quando il dinamico Professore riusciva a farle capire grafici e derivate parziali, Giorgia prendeva a starnutire.
Uno starnuto se aveva in pugno le linee generali dell’argomento, Due se le erano rimasti solo dubbi superficiali e Tre quando riusciva anche a svolgere bene gli esercizi. Con Tre starnuti e mezzo la classe andava in visibilio e per tutti era una gran festa.
Mancavano tre settimane al primo esame e l’unico desiderio di Giorgia non era un 30 o un 18, ma solo Quattro starnuti, tutti di fila, rumorosi e di buon auspicio.
Libre
libera libera libera libera libera
libera libera libera libera sono libera
libera libera da tutto
Libera che neanche vi tocco
Né voi toccate me
Con il vostro odio la vostra morte il vostro sangue nero
libera libera libera
Neanche vi sento
Neanche vi ascolto
Il vostro stanco parlare vuoto inutile falso borghese monotono riluttante
Neanche vi guardo
Chi siete
Tutti voi
Chi siete
Sono libera
Non riconosco più le vostre corde
Libera
Da parte a parte del mio corpo
Il taglio è ancora intatto
ancora vivo, ancora umido
Sono libera
Ma quello rimane
Lo copro con il palmo della mano
È così visibile
e voi così ciechi
Libera
Neanche vi penso
Voi non pensatemi più
Che io sono libera.
Latte caldo e gelosia contro il raffreddore
Cammino per la strada e lo stomaco borbotta, un passo dopo l’altro.
Sarà fame? Influenza?
Mi guardo intorno ma le persone mi sfiorano appena con lo sguardo, e procedono sbuffando sulle loro rotaie.
Non si sente il gorgoglio?
Siete sordi?
Continuo a marciare per il centro città con una mano sulla pancia, mentre qualcosa lentamente striscia su dallo stomaco, trachea, esofago, laringe e faringe.
Arriva in gola. È amara.
Con una mano sempre fissa sul ventre e l’altra sulla bocca, ti mando amorevoli accidenti mentre mi racconti di qualcun’altra.
“Maledetto!”
Sempre più l’amaro in bocca
“Scellerato!”
Ormai ha preso tutti i denti e sale alle orecchie.
“Porco!”
Persino gli occhi sono avvelenati.
Le ciglia sono impiastricciate, il naso è ormai irriconoscibile, i capelli sono zuppi.
Poi sempre più su: l’amaro forma una nuvola densa sopra la mia testa
..e in un momento:un tuono.
Serro le labbra, levo le mani, e la nuvola si apre.
Piove gelosia e mi bagna dal capo fino ai piedi, gelosia melensa, compatta, scura, scivolosa.
“Sono Gelosa!”
“..E fradicia!” mi dice un passante che cammina svelto e mi guarda con distratto divertimento.
Sfrego le mani attorno alla pioggia che mi bagna fino a formare una pallina di gelosia appiccicosa, e gliela lancio.
Gli cade il cappello e si sporca il naso.
Raccoglie la Gelosia, prende la mira sbagliata e ricambia il lancio. Colpisce una signora tutta impellicciata.
É guerra.
Tutto il centro cittadino inizia a tirarsi palle di Gelosia, i bambini strillano e zompettano di gioia. Prendono carote e bottoni per fare pupazzi gelati di Gelosia che generosamente produco senza volere.
Ormai tutto è sommerso: nuotiamo in un mare di melassa emotiva, senza lasciarla colare giù per i tombini, senza nemmeno pensare agli accidenti di quei poveri cristi che tra due ore dovranno pulire le poche cose che questa infame gelosia non si sará mangiata.
Gate numero 10
Dieci come i giorni della settimana
Dieci come i miei anni
Dieci come i libri sul comodino
Dieci come i miei fratelli
Dieci come le notti insieme
Dieci come i giorni che mi separano da te
T’immagino alta e luminosa
Profumi di tradizioni di 100 anni fa
cotte in pentola a fuoco lento
da una signora con un grembiule, al primo piano di un palazzo
Non si chiama Diana, ma ci assomiglia
T’immagino piena, piena fino ai capelli di contraddizioni
di gente
di macchine
di tango
Piena fino al midollo
di fiori, entusiasmo
Nostalgia
Solitudine
T’immagino incantatrice di serpenti
Poi mi vedo, all’angolo
Con la valigia stretta, a guardarti
Ancora umida di lacrime
Ma con la mia solita leggerezza
Ci somigliamo
Andiamo d’accordo
E tu mi apri la porta.
Lodovico il ladro di caldaie
Io e Lodovico eravamo seduti all’ombra della caldaia del bagno di casa mia, in pieno centro città. Si stava davvero bene con il culo sul pavimento riscaldato, a guardarsi negli occhi con un vin brûlé molto speziato in mano.
A me il vin brûlé non piace tanto, ma Lodo parlava, parlava e parlava, senza farmelo mai dire. Ad un certo punto ha iniziato a piovere, allora abbiamo tirato le tende della nostra caldaia e ci siamo rintanati dentro, vicino alla fiammella. Era stata un’idea geniale quella di montarle le ruote e trasformarla in una caldaia itinerante.
Lodo non mi parlava mai d’amore, lo imbarazzava, e poi erano i fiori la sua vera passione. Fiori, piante, ortaggi, arbusti e alberi centenari: tutto ciò che poteva coltivare con le sue mani.
Quella sera, al caldo nella caldissima caldaia, Lodo mi disse per la prima volta che mi vedeva come il geranio rosso del suo davanzale. Rosso com’era lui quando me lo confessò. Voleva proteggermi dal gelo dell’inverno così che fiorissi splendidamente appena il caldo fosse tornato.
E forse fu l’amore,
l’emozione,
il vino,
il sudore,
l’imbarazzo,
la fiammella calda della caldissima caldaia,
ma io mi sciolsi come cioccolata in tazza e non mi rimase altro da fare che sgocciolare via dall’intercapedine dello sportellino di metallo.
Lodo per ripicca mi rubò la caldaia e ci costruì una serra.
Ma un po’ ancora mi ama, io lo so:
ci coltiva solo Gerani Rossi.
Mi riempi il cuore di ciliegie
Terra umida e friabile sotto i miei piedi
Camminiamo per il frutteto
Ti ho seguita fino a qui
Il sole è dolce con alberi vestiti di bianco
Quanto te col mio cuore
Ad ogni passo stacchi una ciliegia e ce la metti dentro
Dici che poi maturerà ed avrò anche io il mio posto sicuro
Ci saranno rami folti per farmi ombra quando avrò troppo caldo
Ogni tanto ti nascondi
torni più alta di tre libri
e più grande di cento anime
Le hai sfiorate per la strada
e non ti sei accorta di quanto t’abbiano lasciato
Incurante e sicura
continui a riempire il cesto tra le mie costole con un sorriso acerbo
Tendi la mano così in alto da confonderla col cielo
Mentre racconti la storia infinita della magia che vorresti avere
Inconsapevole che t’appartenga già
Per cullare le mie parole
La fabbrica non è tanto grande: una di quelle industriette di provincia, dove si lavora sodo.
La sala principale è piena di macchinari alti quanto il soffitto, che chiacchierano tra loro con sbuffi di vapore e musica. Non stridono, non urlano, non si lamentano: il ferro che li compone scivola senza inceppi e sembra davvero che cantino mentre lavorano.
Le pareti sono tutte piene di tende leggere, comprate in india qualche anno prima, arancioni, lilla, verdi e azzurre, appese a fili sottili legati alla buona ad appigli che paiono provvisori. Esse filtrano la luce che entra dalle grandi finestre così che camminando per la sala, tutti gli operai rimangano per un attimo estasiati da questo frullatore di luci, colori e musica, muovendosi tra un raggio blu e uno rosso per arrivare alla loro postazione.
Dato che l’altezza degli orpelli di ferro e rotelle copre la maggior parte della visuale, la fabbrica è dotata di un sistema di strade e viuzze che si intersecano tra loro.
Ognuna ha un nome e una caratteristica, sono tutte diverse e tutte riconoscibili: perdersi è impossibile, ma sarebbe piacevole quanto farlo nello zucchero filato.
Il lavoro non pesa e della paga ci si infischia, si riesce a vivere bene e questo è ciò che importa.
Cosa si produce?
Parole.
E a far parole neanche si inquina: la città è costantemente sorvolata da fumi che profumano di vaniglia, muschio bianco, ambra e mirra, in base a quali parole la fabbrica compone.
Ogni giorno si montano frasi su frasi, libri su libri, saggi su saggi, e si spediscono in giro per il mondo, finché qualcuno non si decida a leggerli. Poi si rincomincia.
Ogni tanto, per quanto ben oliata ed efficiente, la fabbrica s’inceppa.
Le parole non s’infilano, non vanno d’accordo, fanno i capricci.
Allora gli operai si inventano storie per farle addormentare, storie di draghi, principesse, cavalieri, operai e fabbriche, per cullarle fino al loro posto.
Quando si svegliano, coccolate come sono, smettono di lamentarsi e tutto riprende il normale corso.
Nel curriculum bastano pazienza e comprensione, ché le parole sono come bambini: bisogna dare loro il tempo di crescere.