Sueños malparidos

Forse quello che sogno rimane impresso indelebile su carta da lettere, come un alone rosso, il sigillo di un bacio epistolare.
I miei sogni vengono scritti con parole mancanti e infilati in una busta. La chiudo passando la lingua sul suo lembo bianco, ma questa rimane sempre tra le carte non imbucate, perché i miei sogni sono fitti sciami di moscerini che si disperdono al primo gesto della mia mano nell’aria.
Seguono il flusso del vento serale e solo a volte tornano a posarsi dentro al mio orecchio.
Ronzano cattivi e io mi tengo le mani sulla fronte calda sperando che in fretta cambino sogno, cambino orecchio.
Ronzano tanto forte che mi trovo costretta in un altro fastidioso bacio a questa carta ruvida che mai sa lasciarmi quieta.
Sogno viole, lucciole e crisantemi.
E poi, più niente.
La mia mano si alza. I moscerini sono dispersi nella calda sera della mia latitudine e la mia mente tace, appena sveglia e stropicciata, dubbiosa e fidente nell’aver tutto mal compreso e interpretato.

Estratti epistolari

La tentazione divora le dita dell’esile scriba, fino ad un attimo prima chino sui suoi lavori, e ora frenetico dopo la scoperta delle lettere!
Come vorrebbe dare risposta a tutte quelle carte mute da decenni, per dire che un finale diverso è possibile, che l’anonimo amante non deve lasciarsi spegnere!
Egli pensa però, subito dopo, che il desiderio di dare risposta a quelle lettere perse è più grande di ciò che in realtà può dirgli.
Lo scrivano non ha nessuna certezza per raccontare quello che non è:
s’immagina l’innamorato dall’altro capo del filo epistolare e
ricorda bene quanto l’infatuazione possa giostrare le marionette del cervello e far vedere maestosi ruggiti in timidi miagolii.
Riflette sulla predisposizione cognitiva dell’amante, che legge tutto con gli occhi di chi cerca parole d’amore nascoste nei titoli di giornale.
Matto di malinconia, se anche le trovasse, non le interpreterebbe nei giusti tempi né con i giusti modi.
Il copista si arrovella sulla possibilità di una storia che non è stata scritta.
Perché arrivare a lasciar mute queste lettere? Come una cornetta alzata che continua a tubare senza fine.
Vorrebbe tamponare la falla di questo tubo d’amore che spreca gli ingiusti sentimenti dell’amata e dell’amante. Purtroppo però guarda le lettere con l’amaro dell’inutilità: sa che non potrebbe dire niente senza essere frainteso.
Così tante parole sarebbero buttate al vento nella volontà di rispondere per dare risposta, di scrivere per scrivere, per sapere che lui è ancora lui e lei ancora lei, che tutto segue il corso naturale del silenzio, del dolore e della vita.
Niente potrebbe dirgli per toglierlo da quello stato di malinconia.
Niente potrebbe, se non aumentarla, così che lo slancio epistolare per la necessità di dare risposta non sarebbe altro che la colata a picco di parole uscite dalla penna secondo una volontà e riflesse sulla carta del destinatario con un altro senso.
Due anime che non usano più lo stesso alfabeto riguardo al preciso argomento.

Il copista ripone le carte in mezzo al manoscritto in cui erano conservate. Inserisce nuovamente il volume nella mensola dedicata dell’immensa libreria.
Spegne le luci dello studiolo e non scrive più nemmeno una sillaba.
Per questo le lettere che ha trovato sono senza risposta: non c’è parola adatta per la penna di chi ha paura di non essere capito.

tender is the night

Tenera è la notte che ci suggerisce parole cifrate
sciolte solo in questo unico canale
la comunicazione in differita
di un cuore teso che recita solo per dodici ore

Tenera è la notte delle parole che abbiamo appeso al fil di ferro in giardino
insieme ai panni stesi
e non sappiamo se verranno seccate dal vento
lasciandoci arsa la bocca.

Tenera è la notte quando si può mentire
la sincerità fa parte delle cose chiare
Il coraggio è bianco come quei lenzuoli al sole
e la paura è un corvo irriverente

Tenera è la notte quando non dormo sola
e spalle forti mi cullano verso un sonno sereno
Quando non c’è inquietudine neanche per una poesia
ma solo una voce calda che legge per me

Tenera é la notte se silenziosa
se l’ impazienza dimentica d’essere viva
se il demone non mi morde
se il tuo pensiero mi scivola accanto
ma non mi sveglia.

L’imballaggio seriale dei miei cari

Il mio sport preferito è l’imballaggio seriale dei miei cari.
Ogni volta che qualcuno si avvicina al mio cuore scatta in me l’irrefrenabile necessità di imballarlo con nuvole di morbido cotone. Faccio talmente tanti strati attorno a quei corpi a me carissimi che loro smettono di sentire ogni cosa.
Questo è il mio obiettivo: ovattare i miei tesori in modo che niente possa ferirli.
Quando finisco il cotone mi stacco ciocche di capelli e continuo a prevenire ginocchia sbucciate e mignolini contro gli spigoli, ustioni per il troppo sole e forti dolori al petto a causa dei miei passi falsi. Quando anche i riccioli sono terminati mi spoglio e continuo a proteggerli con i vestiti appallottolati, sperando che almeno quelli li possano allontanare da delusioni o nervosismi.
Intreccio le mie ciglia e ne faccio un ombrello per tenerli riparati da fulmini a ciel sereno, e uso la mia lingua per farli sedere su un cuscino di dolci parole che li faccia sentire a casa.

Me le lego tutte in cinta, le persone preziose che imballo, e continuo a camminare in avanti trascinandole nei duri anni che si susseguono.
Cammino così: glabra, muta e nuda, con 5 o 6 gomitoli fissati sulla vita.
Cammino tanto che i piedi mi sanguinano ma non mi rimane niente con cui asciugarli.

Inetta

Tu mi schiacci come fossi uno scarafaggio argentino,
e sotto il tuo piede di pietra io piango e mi dimeno.
Le viscere mi escono dall’addome e io annego nei miei stessi liquidi.
L’asfalto è caldo e scioglie i miei occhi di scarafaggio
così,
cieca,
non riesco a vedere la mia stessa incapacità,
la mia stessa rovinosa morte
su questo asfalto sporco di cui non so più scrivere.
Sento solo il puzzo delle mie feci che per paura non ho trattenuto,
e mi vergogno tremendamente della mia infima condizione.
Non ho il tuo sguardo né la tua comprensione
L’unica cosa tangibile di te è il carrarmato della tua suola
pesante sulle mie tempie.

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi

I tuoi capelli sono rivoli d’acqua gelida diramati dal ghiacciaio che sciolgo con l’aria calda del phon quando giochiamo ad essere brave sorelle.

Come tra la sabbia le mie dita scorrono lisce sulla tua testa e pettinano il tuo campo dorato, fino a che i tuoi severi occhioni blu incontrano i miei con grande disappunto, per un nodo tirato o un passaggio sbagliato del nostro rituale.
Non ho mai asciugato nessun capello al di fuori dei tuoi.
È l’undicesimo comandamento del nostro segreto testo sacro, che mai ci siamo prese la briga di concordare.
Sappiamo solo che quando le circostanze si fanno sgarbate o uniche, io ti devo asciugare i capelli.
Come fosse una carezza per guidarti in nuove acque, o forse per farmi guidare dalle tue redini di paglia.
A volte mi chiedo se saremmo mai potute essere amiche se nate in diverse case, da diversi padri e madri con diversi rituali, diversi bagni, diversi asciugacapelli.
Saremmo mai riuscite a trovare un punto d’incontro tra il tuo essere gelida e schietta e il mio essere entusiasta e dispettosa?
Un punto d’incontro silenzioso e preciso come quello che abbiamo ora.
Non so darmi risposta.
Io ci vedo solamente in questa fotografia: tu seduta davanti allo specchio e io in piedi dietro di te.

Peonie bellissime dagli angoli bui della tua scatola cranica

Peonie bellissime
dagli angoli bui della tua scatola cranica
Nascono nonostante la tua visione cinica
Di un’intelligenza che pensi non t’appartenga più.
Non cogli la bellezza criptica
Del giardino di petali morbidi
Che ti fa capolino dalle orecchie
E i riccioli cadono leggeri
sui cespugli dei tuoi candidi fiori.
Hanno un profumo così intenso
E la tua pelle ne è intrisa
Permea le stanze che chiami casa
È sempre primavera nella tua scatola chiusa
Ovunque tu metta piede
Non vi è ombra
Né male
La vita ti accompagna e rinasce
Ma il tuo credo cresce e mette radici
Sfiduci le peonie che t’hanno creata
E non t’accorgi più del vento nuovo con cui rinfreschi
La noia loquace di menti assopite.
Le domande – i dubbi – i progetti
Più non ti sazi
Ti chiedi ancora quante verità non conosci
Tutto ciò che fai è temere
l’aridità del tuo giardino
Mentre il sole continua a calare
Su cervelli che non hanno fiori.

Volver

Le immagini mi sfuggono dalla mente
Di tutto ciò che ho visto e vissuto
Non mi rimane che un confuso ricordo
Come se avessi sfiorato vite che non potevano appartenermi
e queste si fossero liberate dalla morsa dei miei occhi
Ribellate al mio inchiostro

I pensieri vorticano senza ordine e la bellezza che ho appreso va perduta
Non c’è rimedio alla mia memoria ubriaca

Dove sono andati a finire tutti quei chilometri
Le storie sentite sopra vecchi autobus
Le infinite strade di cemento

La notte è buia dentro la mia testa
e di tutto questo mondo appena scoperto
Non resta che una debole candela
Per rischiarare solo la terra che calpesto ora.

I contorni sono sfumati
e i ricordi intrappolati distrattamente fra la mia pelle sono come schegge di legno prossime all’espulsione.

L’amore urbano

L’amore s’adatta, si plasma.
Vive in cattività come se nulla fosse, viaggia e trasloca, e qui a Buenos Aires diventa amore urbano.
Cerca spazio, allunga le braccia, rompe la crisalide e riesce a trovare il suo posto in due ragazzi seduti davanti all’ingresso di una casa che sicuramente non può essere la loro, al buio della sera, con un sacchetto di empanadas d’asporto.
Hanno fame e stanno cosí, a 20 anni o poco piú, buttati per strada ad imboccarsi a vicenda.
L’amore urbano.
Qui è diverso dalle altre città, è più povero, più sporco, più umile.
É magro, ha graffi sul viso e i polsi molto fragili.
Io passo, veloce come si cammina la sera quando si é da soli, ma loro neanche se ne accorgono: ridono e si puliscono dalle briciole.
Un autobus che suona il clacson, un padrone e un cane a passeggio, solo i kioscos aperti e qualche faro acceso di macchine vecchie.
Io li guardo e mi sembra davvero impossibile immaginarmi questi due ragazzi in un altro posto nel mondo diverso da quei due loro gradini.
L’amore urbano.

I piedi della tapparella accanto

Gianna sedeva davanti alla porta finestra del suo piccolo appartamento, tutti i giorni, pranzo e cena.
Lasciava la tapparella alzata così che la luce naturale potesse entrare libera, mentre lei mangiava tranquilla carote crude e limone.
Proprio di fronte alla sua finestra, ce n’era un’altra altrettanto grande, con le tapparelle a metà, come una triste bandiera a mezz’asta.
Dei piccoli fiori lilla crescevano sul davanzale e canne di bambù erano poste come un accenno di barriera verso il mondo esterno. Come a dire: esisto, ma non vi voglio.
Il vetro oltre le tapparelle non era mai chiuso, e ogni tanto si percepivano passi leggeri avanti e indietro per la stanza, a piedi nudi.
All’inizio non ci aveva neanche fatto caso, il suo sguardo passivo era semplicemente costretto in quella direzione. Poi, dopo settimane, aveva imparato a notare come il ritmo e la vita di quei passi cambiassero giorno per giorno.
Il martedì mattina erano nervosi e andavano di fretta, scalpitavano verso la porta con una scarpa si e una no; il giovedì a pranzo erano spesso arrabbiati, ma per cena avevano già levato il broncio. Il venerdì s’innamoravano e il sabato erano quasi impercettibili, assonnati. La domenica uscivano presto su tacchi alti e tornavano solo il lunedì.
Gianna ormai s’era intimamente affezionata.
Dopo qualche tempo, in un qualsiasi giorno di studio della settimana, Gianna si era seduta a tavola con merluzzo e piselli nel piatto, si era versata l’acqua nel bicchiere, e aveva alzato la testa.
La tapparella era completamente sollevata.
Ne era rimasta basita.
Restava seduta, con la forchetta a mezz’aria, guardando finalmente le pareti bianche dell’appartamento di fronte, il piccolo specchio ovale, il tavolo di legno chiaro che sporgeva, e due stendini pieni di biancheria.
Una figura piuttosto robusta stava attraversando la stanza, con i capelli castani legati, una canotta viola e dei pantaloncini di tuta grigi. Scalza.
Eccoli, i piedi della tapparella accanto.
Gianna aveva immaginato la loro proprietaria come una figura più distinta, più piacevole. Ma poco importava, da un momento all’altro ciò che le era sempre stato negato si era palesato davanti alla sua bocca aperta e stupita, senza invito e senza avvertire.
Si sentiva come se le sue abitudini fossero state stravolte, azzerate.
Gianna non era pronta per questo genere di cambiamento.
Aveva mollato la forchetta e si era alzata bruscamente.
La sedia era caduta, offesa come sempre dopo i movimenti maleducati. La mano le tremava ma era riuscita a stringere la maniglia della finestra e a tirarla verso di sé facendo forza sugli infissi molto vecchi. Un clacson l’aveva salutata dalla strada lontana e il sottile vento estivo aveva sparso tutt’intorno i mozziconi del posacenere sul parapetto.
Gianna era rimasta così, appesa alla ringhiera del terrazzino, mentre il merluzzo si freddava e l’inquilina di fronte incurante continuava a passeggiare.
Aveva pensato che la verità non era poi così importante alla fine dei conti.
Certe cose avrebbe preferito non saperle.
La donna aveva quarant’anni almeno e si muoveva goffamente, trascinando un corpo tozzo che andava a sbattere contro i mobili senza attenzione, con aloni di sudore sotto le ascelle e un’aria molto scocciata.
Ci sono speranze e aspirazioni che nutrono i nostri sogni migliori. Così che gli uomini possano crogiolarsi nell’idea di qualcosa di dolce e perfetto che però non possono raggiungere.

Si erano guardate.
La donna aveva grugnito piano e aveva abbassato nuovamente la tapparella, facendola tornare alla sua posizione iniziale.
Gianna aveva rialzato la sedia e si era seduta.
“Meglio così”.